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Come garantire la continuità terapeutica ai partecipanti della ricerca clinica?

I partecipanti agli studi clinici sono da ammirare per molti aspetti. Ritengo che il motivo più elevato per ammirarli sia il sacrificio. Tutti, dai volontari sani dalla ricerca clinica precoce, ai pazienti degli studi sulla sicurezza e sull'efficacia, sacrificano il tempo ma soprattutto il proprio corpo per la scienza e per lo sviluppo di terapie innovative per la cura dei piccoli e grandi mali.


Vi chiedo di soffermarci alla sola ricerca clinica di fase III, cioè a quella ricerca che si pone l'obiettivo di cercare una conferma terapeutica per i nuovi trattamenti.
Nella pianificazione di un nuovo protocollo clinico, il più delle volte, si fa di tutto per rendere omogenea la popolazione che prenderà parte alla ricerca: processi come la randomizzazione abbattono fortemente le variazioni tra due gruppi in quanto la casualità dell'assegnazione suddivide in maniera eguale quelle variabili non note che altrimenti potrebbe concentrarsi in uno dei due gruppi, rendendo pochi robusti i risultati.

Molte volte, quando mi trovo a fare delle considerazioni sui protocolli clinici, mi soffermo su un aspetto che a prima vista potrebbe sembrare superficiale anche solo per il fatto di  essere rilevante solo alla fine dello studio, quindi anche dopo molti anni dall'inizio della ricerca.

Ognuno di noi è uguale a se stesso e a nessun altro. Questa frase mi è sempre di aiuto nella mia considerazione sulla continuità terapeutica. Immagino poi un soggetto incluso in studio di fase III che ha evidenziato una risposta più che positiva al trattamento. Una risposta inaspettata e duratura.

Dal punto di vista normativo questo soggetto potrà continuare il trattamento alla fine dello studio se:

- il promotore ha previsto un expand access, uno studio, alle volte incluso come appendice della ricerca principale o anche come protocollo a parte, che prevedere la somministrazione del nuovo trattamento a tutti i partecipanti della ricerca principale;
- l'azienda è disponibile a fornire gratuitamente il farmaco sperimentale per uso nominale (ex uso terapeutico) secondo il DM 08.05.2003.

Cosa succede se entrambe le possibilità non sono previste? Esiste un vuoto normativo incapace di fornire indicazioni precise sul tema.

Lo spazio che intercorre tra la fine della ricerca e l'eventuale approvazione del nuovo trattamento è vuoto se non sono ammesse le possibilità sopra elencate.

Mi ripeto, ognuno di noi è uguale a se stesso e a nessun altro. Altro punto di riflessione è: la garanzia della continuità terapeutica deve esserci anche quando, all'esito della valutazione dei risultati dello studio di fase III, il nuovo trattamento sia risultato non efficace rispetto al comparator.

Questa ultima riflessione potrebbe sembrare strana a molti ma credo che potrebbe essere facilmente compresa considerato che non è impossibile che un soggetto rilevi una risposta positiva, inaspettata e duratura al trattamento anche qualora questo non sia efficace rispetto al comparator.

Come è necessario comportarsi in questi casi? Cosa potrebbe risolvere questo vuoto normativo? Obbligare alla continuità terapeutica i promotori nelle convenzioni economiche spesso trova una ferma opposizione delle aziende. Non ho mai compreso questa opposizione, se dettata da una mancata e vera presa di coscienza di questa eventualità o se dettata da altre considerazioni a me non note.

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